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Mese: Ottobre 2019

Quale ruolo ha la CDP nello stack di marketing?

Dopo aver appena evidenziato la complessità della Martech e la sua eccessiva stratificazione, ecco che aggiungiamo un’ulteriore soluzione: la CDP. Paradossale? Sì, se consideriamo la CDP solo come una soluzione in più; in realtà non lo è, se valutiamo la CDP come qualcosa che amplifica il valore delle soluzioni esistenti e, soprattutto, che risponde alle richieste del moderno marketer.

La CDP: 4 campi d’azione e un’ambizione

La CDP designa una soluzione monolitica? Una piattaforma composta da diversi servizi? Un’architettura che unisce delle soluzioni esistenti? Non a caso, a seconda della sua esperienza e della sua storia, ogni operatore fornirà una risposta diversa a queste domande. Tuttavia, per meritare questo titolo, una CDP deve coprire 4 funzioni principali e… servire un’ambizione principale.

Funzione #1 – Raccolta dati su scala omnicanale

Il campo d’azione della CDP inizia con la raccolta dati a tutto tondo, sia da canali digitali che fisici (negozi, call center). I dati raccolti su questa scala omnicanale sono quindi talvolta anonimi (quando provengono dai famosi cookie), talvolta personali (quando sono associati ad un account di posta elettronica, ad un numero di carta fedeltà).

Recuperati in tempo reale, questi dati vengono associati ad un’ampia gamma di attributi (campagna promozionale, contenuti consumati, cronologia degli acquisti, ecc.) e memorizzati permanentemente. L’obiettivo: combinare questo prezioso materiale di base – i dati di prima parte – per sviluppare la conoscenza del cliente.

Funzione #2 – Riconciliare i dati intorno all’individuo

Questa è la sfida principale che la CDP cerca di affrontare: riconciliare i dati raccolti da una prospettiva People-Based. Ancora oggi, il marketing si rivolge principalmente alle macchine (i famosi “devices”). Per acquisire maggiore rilievo, la conversazione di marketing deve essere costruita intorno alle persone.

Non sorprende che la riconciliazione tra cross-canal e cross-device sia un compito difficile. L’uso di dati di terze parti può essere utile per collegare informazioni provenienti da diversi canali e dispositivi ad una stessa persona. È anche mantenendo delle relazioni strette con i componenti dei sistemi informativi esistenti come il CRM, al fine di ottenere ulteriori informazioni nominative, che la CDP può svolgere questa missione.

Funzione #3 – Segmentare e attivare

Il marketing di massa è ormai superato. Non si può avere alcuna prestazione senza rilevanza. E nessuna rilevanza senza una relazione personalizzata – la missione fondamentale del moderno marketer. Anticipare le aspettative di un pubblico richiede la capacità di segmentare finemente i profili.

L’obiettivo: moltiplicare agilmente le ipotesi di segmentazione in base a molteplici dimensioni: demografica, geografica, comportamentale… È sulla base di questi segmenti di pubblico che la CDP attiva le soluzioni disponibili: DCO (Dynamic Creative Optimization), automazione delle sequenze di marketing, personalizzazione dei contenuti offerti su un sito…

Queste attivazioni non si limitano alla sfera digitale: dai negozi ai call center, i punti di contatto fisici sono anche delle leve a portata di mano della CDP. La crescita si costruisce lavorando sulle potenzialità di ciascun segmento e ritirando quei segmenti le cui dimensioni non sono sufficientemente significative per incidere sul business.

Funzione #4 – Analizzare e ottimizzare

LA CDP non è “solo” un repertorio di clienti e clienti potenziali: essa attiva le soluzioni disponibili e, soprattutto, alimenta un circolo virtuoso. Le attivazioni vengono applicate a dei segmenti, la performance risultante viene analizzata e questi risultati aiutano, in cambio, a perfezionare i segmenti e le attivazioni. Abbastanza per alimentare i cicli di ottimizzazione sfruttando al meglio le soluzioni di A/B testing.

Più in generale, la CDP aiuta a ridurre i pregiudizi nell’interpretazione della performance della campagna. Per il momento, poiché i modelli di assegnazione sono ancora grezzi, le prestazioni di un punto di contatto o di una campagna sono analizzate in modo (troppo) isolato. Senza fornire una risposta magica all’attribuzione, la CDP, attraverso il suo ruolo di direttore d’orchestra, consente di effettuare delle misure differenziali della prestazione, da uno scenario all’altro. Abbastanza da assistere il processo decisionale con i dati.

Funzioni al servizio di un’ambizione

Mentre le 4 funzioni principali che abbiamo appena riassunto delineano il campo d’azione di una CDP, esse non sono sufficienti a caratterizzarla. A ciò si aggiunge un’ambizione che deve riflettersi in ognuna di queste funzioni e che fa eco alle missioni del moderno marketer: orchestrare in modo globale la personalizzazione della customer experience intorno ad una conoscenza condivisa. L’ergonomia della CDP deve aiutare a togliere dal silo l’organizzazione mettendo a disposizione tutte le competenze necessarie:

  • Una sintesi dello stato di conoscenza del pubblico (grado di riconciliazione dei dati, archetipi dei percorsi…)
  • una rappresentazione visiva dei segmenti e delle loro dimensioni principali
  • una dataviz efficace per documentare l’andamento delle diverse combinazioni di segmenti e attivazioni

In altre parole, la CDP è progettata principalmente per l’uso diretto da parte del team di marketing. E, inoltre, per consentire a tutti di sfruttare al meglio i dispositivi e le soluzioni di cui il team è responsabile.

L’epoca dei cookie sta per finire? Commanders Act dice di no grazie a due soluzioni

La scomparsa dei cookie sui siti web è ormai una vecchia storia, da quando esiste il tracking e da quando i browser, le estensioni e i software antivirus o di pulizia offrono la possibilità di eliminarli o bloccarli. Ma a causa dell’avvento del GDPR e dei molteplici reclami degli utenti, sia la CNIL (Commission nationale de l’informatique et des libertés) francese che i provider di servizi come Google, Facebook o Apple vanno ora nella stessa direzione: l’eliminazione definitiva di questa stringa di caratteri così remunerativa. Solo i cookie di terze parti, però, saranno interessati da questo cambiamento e Commanders Act dispone già di soluzioni che consentono di continuare a trarre vantaggio dai cookie accettati, che sono effettivamente utili.

Oggi, i cookie vengono ampiamente stigmatizzati dal settore, ma la confusione è tale da richiedere alcune precisazioni in merito all’argomento. Queste stringhe di caratteri consentono di memorizzare un certo numero di opzioni di lettura o di parametri tecnici da una visita all’altra, come ad esempio la versione linguistica corretta di un sito per un determinato utente, che ne permetterà quindi una visualizzazione più rapida. Questi cookie sono noti con il termine “cookie di prima parte“, in quanto sono legati al nome di dominio del sito web. Altri sono detti invece “cookie di terze parti“, non sono legati al nome di dominio del sito, ma provengono da servizi di terzi, pubblicità o marketing, nella maggior parte dei casi. È proprio quest’ultimo tipo di cookie che i browser web di prossima generazione hanno intenzione di eliminare. Infatti, il 21% dei reclami depositati presso la CNIL nel 2018 riguardava principalmente il marketing online.

Da allora, sono state adottate misure drastiche. La CNIL e l’Europa, ad esempio, hanno deciso di contrastare i tracker di cui i cookie fanno parte. In questo modo, se gli utenti non danno il loro esplicito consenso all’uso di questi cookie, i proprietari di siti non potranno installarli e di conseguenza raccogliere dati. Ma gli obiettivi sono più ambiziosi e riguardano anche il fingerprinting. Questo termine indica l’attività di raccolta, e dunque di tracciamento, da parte di un browser di un determinato numero di informazioni sul dispositivo di un utente, tra cui l’indirizzo IP e altri parametri, per costruire un’impronta (fingerprint) unica.

Per far fronte al problema dei tracker, la CNIL ha stabilito quest’estate delle linee guida e pubblicherà a gennaio prossimo una risoluzione su questo argomento e sul GDPR, che sarà valida fino a luglio 2020, ossia domani. Queste informazioni si sostituiscono al ritardo dell’uscita e dell’applicazione del regolamento e-Privacy. Questo significa quindi la fine del soft opt-in, vale a dire il consenso dato dagli utenti in seguito al semplice proseguimento della navigazione su un sito web.

Più precisamente, il GDPR è da un lato il regolamento per la protezione dei dati che esige che le aziende cataloghino tutti i file contenenti informazioni personali. Deve avere un carattere generico per poter includere il digitale, che è una parte estremamente specifica che è stata dettagliata a livello europeo dal regolamento e-Privacy. Una prima direttiva su questa scala esiste dal 2012. Ma l’e-Privacy sarà come il GDPR. La nuova versione sarà un regolamento generale. A livello di diritto europeo, la differenza tra una direttiva e un regolamento generale sta nel fatto che una direttiva è una ritrascrizione secondo il diritto locale effettuata da tutti gli stati membri. Si tratta di un orientamento dato dall’Europa, ma ogni paese decide di interpretare e applicare la direttiva alla propria maniera. Un regolamento generale si applica in modo uniforme in tutti gli stati membri.

Occorre notare che i cookie sono dati personali e rientrano pienamente nella definizione dell’articolo 4 della CNIL che considera gli identificativi online (in questo caso i cookie persistenti associati esclusivamente al terminale) come riferimenti diretti o indiretti alla persona fisica. Il regolamento e-Privacy ha specificato in dettaglio il pacchetto Telecom nell’ambito dell’universo tecnicamente complesso del digitale e delle telecomunicazioni, che consiste in un insieme di direttive che hanno profondamente modificato il quadro giuridico delle comunicazioni elettroniche.

Bisogna tuttavia distinguere tra i cookie tecnici, che sono pienamente autorizzati ed essenziali per il buon funzionamento di un sito, e i cookie di tracking, legati in particolare al targeting pubblicitario. La legge riguarda soltanto i secondi. Chiaramente previsti dalle nuove regole, il loro funzionamento sarà soggetto al consenso esplicito dell’utente per ogni trattamento effettuato.

Sempre più traffico tramite i dispositivi mobili

Oltre alle varie regolamentazioni, numerosi fattori minacciano l’esistenza dei cookie di terze parti. Il primo è che oggi, secondo uno studio di Médiamétrie del 2018 dal titolo “L’année Internet en France” (L’anno Internet in Francia), più del 50% del traffico web avviene su dispositivi mobili come tablet e smartphone, sui quali i cookie su iOS non sono utilizzabili. Con questa tendenza alla “mobilità” di Internet, il futuro dei cookie è più che incerto. E se non sarà possibile monitorare gli utenti, gli inserzionisti taglieranno i budget attualmente dedicati al targeting. In caso contrario, dovranno raccogliere la sfida e cercare di rivolgersi agli utenti di dispositivi mobili. Non dobbiamo peraltro dimenticare la popolarità degli ad blocker, che possono essere sia software disponibili in commercio, sia opzioni dei browser.

Apple, ad esempio, ha sviluppato una politica anti-cookie in Safari che ha praticamente ucciso il targeting pubblicitario. La maggior parte dei trading desk diserta il browser e i media vedono di conseguenza crollare i propri profitti. I trading desk sono piattaforme che utilizzano i dati e la tecnologia per aiutare gli inserzionisti ad acquistare traffico per mezzo di media digitali.

A sua volta, Google implementerà nella nuova versione del suo browser Chrome alcune funzionalità contro i cookie e i tracker, dopo aver aggiunto un’estensione che consente agli utenti di assegnare una data di scadenza ai dati personali. Oggi, Apple ha fatto la stessa cosa riducendo la durata di vita dei cookie di tracking da 30 giorni a 24 ore, con la versione 2.2 del suo ITP (Intelligent Tracking Prevention), un programma di protezione contro il tracciamento degli utenti integrato in Safari. Per finire, Microsoft vuole introdurre nuovi controlli nel suo browser Edge basato su Chromium, per una migliore protezione della privacy. Ricordiamo che Chromium è un browser web libero che funge da base per molti altri browser, alcuni dei quali open source e altri proprietari, come Google Chrome. Microsoft sviluppa quindi un dashboard della privacy con opzioni per configurare il tracking eseguito dai siti web.

Le soluzioni di Commanders Act

Di fronte a questo universo legislativo in continuo mutamento, Commanders Act mette a disposizione la propria esperienza nel campo del tracking maturata nel corso di molti anni. Parliamo, in particolare, della delega di dominio. Un cliente delega un sottodominio del suo sito a Commanders Act, che lo gestirà. In questo modo, è possibile far passare i cookie di terze parti come cookie di prima parte. Non essendo interessati dalle nuove regolamentazioni, questi ultimi continueranno a recuperare le informazioni utili sui visitatori per i clienti. La seconda soluzione si applica lato server. L’identificativo e i dati non passano dal browser dell’utente ma vengono inviati dal server che fornisce i contenuti. Occorrerà comunque richiedere il consenso dell’utente per utilizzare questo metodo.

Commanders Act offre quindi due soluzioni nel pieno rispetto delle leggi e del consenso degli utenti, soluzioni che sapranno adeguarsi alle modifiche giuridiche nazionali ed europee. Una garanzia di continuità per i clienti basata sulla competenza professionale, sulla quale si fonda Commanders Act, e la cui prima proposta di valore è la gestione dei tag, del tracking e dell’invio di informazioni ai partner.

Commanders Act ha la soluzione per far fronte all’ITP

L’ITP, o Intelligent Tracking Prevention, integrato da Apple nel suo browser Safari, ha lo scopo di proteggere l’utente contro l’abuso di dati personali. Una situazione che ha conseguenze importanti per gli operatori di marketing e gli analisti.

Da diversi anni, gli utenti hanno deciso di riprendere il controllo dei dati che lasciavano più o meno volontariamente navigando su Internet. Successivamente, la legge, la rivolta degli utenti e l’immagine che vogliono dare i giganti del web come Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, hanno cambiato le carte in tavola dando vita, tra le altre cose, all’ITP.

A cosa serve l’ITP?

Questa funzionalità, integrata nel browser Safari, si propone di proteggere la privacy degli utenti Apple limitandone il monitoraggio sulla rete, ossia il tracking, attraverso i vari siti. In sostanza, i cookie che consentono questo tipo di monitoraggio (formulato in JavaScript) hanno adesso una durata limitata a 24 ore (mediante gli aggiornamenti iOS 12.3 e macOS Mojave 10.14.5), indipendentemente dalla landing page.

Pertanto, trascorse 24 ore tra due sessioni, l’ITP versione 2.2 impedisce il riconoscimento di un utente da una sessione all’altra. Il customer journey di questi utenti Apple, che rappresentano circa il 7% del mercato desktop e oltre il 25% di quello mobile, viene quindi interrotto: è impossibile identificare la campagna che ha spinto l’utente ad effettuare un acquisto, così come è impossibile identificare il partner con l’impatto maggiore su questa conversione.

L’ITP 2.2 si concentra su una tipologia particolare di cookie: i cookie di prima parte. Si tratta di un cookie associato al nome di dominio della pagina su cui si trova il codice dell’indicatore che serve a controllare un sito. Ne esistono di 2 tipi: falsi e veri. I falsi sono quelli che fanno credere all’utente che il cookie sia legato al dominio visitato, grazie a un espediente JavaScript.

I veri sono cookie di prima parte posizionati e trattati nel pieno rispetto delle regole, sia dal sito stesso, sia da una tecnologia che dispone di una delega di dominio. È ciò che propone in particolare Commanders Act con il suo servizio di delega di dominio.

Ovviamente, sono i falsi cookie di prima parte ad essere bersaglio dell’ITP.

Le conseguenze

Gli inserzionisti pubblicitari possono perdere tra il 15 e il 30% del traffico con Safari, e con Chrome o Firefox la cifra può raggiungere il 100%. Inoltre, in applicazione della direttiva europea detta “pacchetto Telecom”, gli utenti devono essere informati e dare il loro consenso prima dell’inserimento di tracker. Devono avere la possibilità di scegliere di non essere tracciati quando visitano un sito o utilizzano un’applicazione. Gli editori hanno quindi l’obbligo di richiedere il previo consenso degli utenti. Questo consenso è valido al massimo 13 mesi. Certi tracker sono tuttavia esonerati dalla raccolta di tale consenso. Di conseguenza, l’analisi degli utenti è più complicata. Esistono oggi alcune soluzioni di analisi che non sono tenute a ottenere il consenso, in quanto soddisfano le seguenti condizioni stabilite dalla CNIL: il cookie deve servire esclusivamente alla produzione di statistiche di frequentazione anonime sul sito in questione e non deve quindi essere confrontato con altri trattamenti (file cliente, frequentazione di altri siti e così via).

L’indirizzo IP, qualora venga raccolto, deve essere reso anonimo. I cookie creati devono essere conservati per 13 mesi al massimo, a partire dalla prima visita.
Occorre tenere presente che l’ITP 2.2 riduce questo periodo a 24 ore.

In più, di fronte a questa nuova versione dell’ITP, Commanders Act propone il tracking di prima parte. Il principio è semplice. Il cliente affida, mediante una delega di dominio, la gestione di un sottodominio del suo sito a Commanders Act. I falsi cookie passano quindi come cookie di prima parte e non vengono più bloccati dal sistema Internet Tracking Prevention. I dati di analisi vengono recuperati oltre il limite iniziale delle 24 ore imposto dall’ITP e l’utente può visualizzare pubblicità mirata sul sito web, se resta sul dominio corrente.

Questa soluzione consente oggi di evitare di perdere la conoscenza acquisita di un utente desktop o mobile nel tempo, legata a qualsiasi browser, in virtù dell’ITP 2.2 o di altri metodi implementati.

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